Brexit, crisi e pandemia: dal Covid l’Europa ne esce male

Dall’austerity del 2008 alla frattura britannica, fino al coronavirus: l’Europa si ritrova alle soglie di un cambiamento epocale, con più bisogno che mai di unità.

Europa
Foto di Mediamodifier da Pixabay

Ce ne saranno di cocci da riaggiustare una volta passato l’uragano. Per l’Unione europea come per il resto del mondo. La sensazione è che, finora, si abbia avuto solamente a che fare con una parte delle conseguenze portate dalla pandemia. Con un sentore diffuso che per molti Paesi membri la notte sia appena iniziata. Colpa della situazione attuale, che parla di un Vecchio Continente ancora alle prese con l’emergenza, senza un vaccino proprio (se si escludono i prodotti britannici, pur combinati, nel caso del campione di Oxford, con ricercatori italiani) e con una situazione economica che costringerà a posticipare il Patto di stabilità.

Non è come nel 2008 (quando la crisi fu generale ma provocò di fatto un solo rischio di baratro, quello della Grecia) ma la recessione odierna rischia di fare anche più danni. La frenata dei consumi è stata determinante nel mettere in piedi una delle recessioni più gravi dell’ultimo secolo, anche considerando le ingenti somme che la Banca centrale europea si è trovata a dover stanziare per garantire ai Paesi membri le risorse giuste per poter mantenere la linea di galleggiamento. Ed evitare nuovi casi Grecia, dal momento che le possibilità che accadessero c’erano tutte.

La pandemia ha pesato, fra lockdown e restrizioni varie, ma lo stato traballante dell’Europa si era palesato prima (e in alcuni frangenti anche dopo). La politica di austerity che, nel 2008, stava costando il default ad Atene è l’esempio limite. Il primo vero dente ha iniziato a muoversi qualche anno dopo, nel 2016, quando il referendum del Regno Unito sancì la volontà (risicata) dei britannici di lasciare il consesso europeo.

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Brexit, crisi e pandemia: l’Europa che cambia e che scivola

La fase di trattative sarà estenuante e più volte l’integrità dell’Europa (nel frattempo pronta ad allargarsi sempre di più ai Paesi dell’est), riuscendo a formalizzare tutto solo a gennaio 2020. Ovvero, poco prima del disastro. Che ci rimetta il Regno Unito è tutto da dimostrare, visto che c’è vita anche fuori dall’Ue.

La pandemia non è solo un’emergenza sanitaria. Il lockdown impone il blocco delle attività commerciali, ferma il turismo, interrompe lo sport, frena l’indotto praticamente in ogni Paese. Limitando al massimo la circolazione di denaro e, soprattutto, di persone. Un’altra parziale batosta che rischia di compromettere la stabilità europea è la discussione sul Recovery Fund.

Metà dei Paesi del Gruppo Visegrad si mette di traverso, le discussioni vanno alle lunghe e le divisioni vengono fuori. Alla fine si trova la quadra ma non ci si guadagna in credibilità. Poi il vaccino: AstraZeneca taglia le forniture, l’Europa si ritrova nel limbo fra il percorrere le vie legali consentite dai contratti sottoscritti e il buco normativo che ne frena l’appello. Intanto i contagi salgono e i competitor, anche sul piano vaccinale, corrono. Persino la Russia col suo Sputnik.

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