Guerra e lavoro, ballano i miliardi: chi prende di più? Perché i conti non tornano

Non è questione di supermercati o di risorse ridotte. La guerra incide solo in parte su un bilancio ben più complesso che coinvolge il mondo del lavoro.

Non è mai semplice, in tempo di guerra, riuscire a comprendere realmente quale sia il quadro complessivo. Anche se il teatro dello scontro non è direttamente sul territorio della propria Nazione.

Spese guerra lavoro
Foto © AdobeStock

Il meccanismo delle alleanze, anche solo sul piano economico, è come un castello di carte. Basterebbe un soffio di vento a far sì che tutto venga giù, trascinando con sé tutta l’impalcatura, per lasciare magari in piedi uno o due pezzi. Difficile che accada, però. E in una guerra alle porte dell’Europa, innescata da un Paese che europeo non può essere considerato contro un altro che nell’Unione non figura, finisce per entrarci l’intero Vecchio Continente. Perché le bombe esplodono tanto vicino da sentirne l’eco. E anche perché i due contendenti sono innanzitutto due partner dei Paesi al di qua del Mar Nero, con le loro peculiarità e le loro carte vincenti. L’Europa, ancora una volta, diventa il centro nevralgico della contesa, un crocevia fra la contesa ormai storica che pone il nucleo dell’ex Unione Sovietica di fronte agli Stati Uniti.

Uno scontro non propriamente alla pari, almeno sul piano economico. Tanto che le stesse sanzioni applicate dai partner europei alla Russia di Putin rischiano seriamente di creare più danno all’assetto finanziario di Mosca piuttosto che ai Paesi europei. Di fatto dipendenti, almeno in parte, dagli approvvigionamenti energetici russi ma, a ben vedere, perfettamente in grado di farne a meno. A condizione che venga predisposto un piano alternativo serio. Ma visto che il momento di fare i conti prima o poi arriva, specie se di mezzo c’è un conflitto, sarebbe bene capire dove andare a guardare. Perché mentre si disquisisce sulla richiesta di sostegno in termini di equipaggiamento e soprattutto armi dell’Ucraina, in casa nostra c’è un piano di ripresa da rispettare. E una folla di lavoratori ancora in attesa di reintegrare il colpo pandemico.

Guerra e lavoro, le spese italiane: dai 200 euro una tantum alla produzione bellica

L’asse fra guerra e lavoro forse non è sempre diretto. A meno che un Paese non sia coinvolto direttamente nel conflitto, tanto da richiedere un potenziamento dell’industria bellica. Dal momento che non è questo il caso, sono gli effetti indiretti a pesare non solo sul morale ma anche sulle tasche dei cittadini. Perché mentre si parla di missili ipersonici in grado di incenerire qualche città nell’arco di qualche minuto, la fucina della vita quotidiana ha ripreso a martellare. Contando, magari, sull’apporto di un’Europa che, giocoforza, viene tirata per la giacca sia dai contendenti dell’Est che dal convitato di pietra dell’Ovest. Al momento, l’Italia come il resto dei Paesi, fa affidamento sui piani di ripresa. In un momento storico in cui, fra inflazione e rincari, arrivare a fine mese è sempre più complicato.

I vari decreti emessi a sostegno dei lavoratori hanno concesso solo un effetto lenitivo. A fronte di una ripresa a pieno ritmo anche delle attività di riscossione, far quadrare i bilanci, anche familiari, è impresa abbastanza ardua. Il decreto Aiuti, ad esempio, ha investito 14 miliardi per il rafforzamento di agevolazioni esistenti, in primis il Superbonus. Il quale, per ammissione del premier, avrebbe triplicato le spese. Al contempo, si cerca lo sprint sull’automotive, incentivando l’obiettivo sostenibilità per l’acquisto di auto che, concretamente, per molti cittadini restano fuori budget, anche con il bonus. E per i lavoratori, come ultima misura, è stato disposto un plus una tantum pari a 200 euro, includendo anche i pensionati con redditi al di sotto dei 35 mila euro. Un intervento mirato a sostegno dei redditi medio-bassi (autonomi inclusi), quelli effettivamente più colpiti dalla doppia crisi.

Il quadro dei lavoratori

Qualcosa però sembra non funzionare. Al netto dei sostegni, che tamponano ma che non possono creare assistenzialismo, secondo i dati di Svimez e Istat almeno il 12% dei lavoratori italiani vivrebbe in condizioni di povertà. O comunque sulla soglia di questa. A conti fatti si parla di circa 3 milioni di persone, per le quali l’arrivo alla fin del mese è un problema che non si pone, in quanto i soldi finirebbero prima. Condizione peggiorata dal Covid (+ 400 mila lavoratori in queste condizioni dal 2020 a oggi) e da un sistema lavoro che, fin qui, non ha premiato i giovani. Quelli messi peggio: il 50% dei lavoratori fra 30 e 34 anni percepisce retribuzioni fra 8 mila e 16 mila euro l’anno. La soglia di povertà di un lavoratore viene fissata a 11.500 euro l’anno. Appena un 20% dei lavoratori trentenni è in bilico sul baratro, con aspettative peraltro invariate anche in ottica dei 40 anni. Senza contare i lavoratori costretti a svolgere le proprie mansioni solo per poche ore (al Sud è imposto il part-time almeno nell’80% dei casi). Solo tre Paesi in Europa stanno messi peggio.

Guerra, la reale spesa bellica

Cosa c’entra la guerra? Forse poco per il momento. Di più se si considera il termine d’investimento. Va detto che, negli ultimi tempi, l’Italia non ha approntato ulteriori risorse per le spese militari e di difesa. Al momento si parla di 25,8 miliardi complessivi, con un aumento, questo sì, dell’incidenza sul Pil, passata dall’1.14% di una decina d’anni fa all’attuale 1.41%. Particolarmente accelerato il balzo, secondo l’Osservatorio Milex, dal periodo immediatamente precedente alla pandemia (2019) al 2022: da 21,5 miliardi a 25,8. Numeri che all’apparenza potrebbero sembrare fuori dal mondo. In realtà è una strategia abbastanza condivisa con gli altri partner europei, per non parlare degli impegni dello scacchiere Nato. Il quale, a ogni modo, non impone vincoli in bilancio. In pratica, lo sviluppo della difesa e la spesa militare si conferma un deterrente a scenari complessi. I quali, se concretizzati, andrebbero teoricamente a compromettere ulteriormente il quadro generale. E l’Ucraina, o meglio, l’invio di armi all’Ucraina c’entra relativamente in questo momento.

Il problema, più che economico, pare quasi filosofico. Capire se la pace sia una mera convenzione piuttosto che un’idea concreta di unità di intenti nello sviluppo condiviso. Nella prima opzione, una certa rilevanza delle spese militari è obbligatoria. Con buona pace di chi naviga nel mare del lavoro a bordo di un guscio di noce.

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