Lavorare e vivere felici: cos’è l’esperimento dei “4 giorni”

La rivoluzione del lavoro in tempo di pandemia ha evidenziato fattori già noti, dallo stress agli orari eccessivi. Nel mondo prende piede un’ipotesi particolare.

Lavoro 4 giorni
Foto di Mohamed Hassan da Pixabay

La rivoluzione dello smart working ha cambiato il modo di intendere il lavoro. La letteratura in materia è piuttosto variegata e, se c’è qualcuno che si mostra favorevole al lavoro da casa, qualcun altro opta sovente per quello in sede, ritenuto migliore per separare la vita privata da quella lavorativa. Senza contare i concetti di socialità, di condivisione e di interfaccia de visu con i propri colleghi. Tutto interessante e importante nella concezione del lavoro nella sua essenza. E’ innegabile, però, che la pandemia abbia influenzato sensibilmente anche questi concetti.

Lo smart working, infatti, pur apportando qualche beneficio, ha reso evidenti alcuni difetti. Innanzitutto la tendenza al cosiddetto “presentismo”, ovvero la presenza sul lavoro per più tempo del dovuto come riflesso psicologico della permanenza nei propri spazi domestici (con tutte le loro potenziali distrazioni). Inoltre, la necessità di una flessibilità anche nel momento in cui l’operatività dovesse essere in sede, per ridurre le problematiche di stress e burnout. Una delle soluzioni, se non altro fra le più discusse, è quella della riduzione degli orari. Una strategia che, in Italia, è un dibattito costante ma non fra i più partecipati.

Orario ridotto, l’ipotesi del lavoro per 4 ore: i Paesi che ci hanno provato

Se nel nostro Paese se ne chiacchiera, in altri si è scelto di provarci seriamente. L’idea della settimana corta, infatti, è stata percorsa in diverse zone del mondo, dall’Islanda alla Nuova Zelanda, ma anche in Finlandia, Giappone, Spagna, Svezia e soprattutto Scozia. Il concetto è semplice: una settimana lavorativa composta da soli 4 giorni lavorativi, ricercando l’ottenimento dei risultati aziendali in un orario più limitato ma che consente maggiori opportunità di riposo. Alcuni esperti del settore ritengono che la soluzione sia ideale per combinare profitti e benessere dei lavoratori. L’idea di fondo, infatti, è che più ore di lavoro non significano necessariamente più quantità prodotta. Anzi. Spesso avviene il contrario, ovvero l’accumulo di un quantitativo eccessivo di stanchezza e stress che fa inevitabilmente scendere la qualità della produttività.

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Un sondaggio della Buffer, società di pianificazione dei social media che ha sperimentato questo programma, ha evidenziato una maggiore soddisfazione da parte dei lavoratori. Circa il 60% di essi, infatti, si è detto più riposato e, al contempo, più produttivo. Unico difetto, un calo della produzione del servizio clienti, dovuto al maggior tempo di attesa per le risposte. L’obiettivo non è estendere il sistema a tutti i contesti lavorativi ma solo in quelli in cui la presenza del fattore di stress oltre un determinato orario è comprovata. In Scozia si guarda un pochino più in là, con l’idea di estendere la settimana ridotta a livello nazionale. Altri Paesi ci proveranno in modo più graduale. In Islanda il test risale addirittura a qualche anno fa e ha prodotto risultati incoraggianti. Ma è bene ricordare che il concetto si adatta solo a determinati contesti. Quelli dell’ufficio, più indicati ad assorbire le regole del lavoro agile. Insomma, la potenziale riduzione del rischio stress non è per tutti.

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