Monica Vitti, quel lato nascosto che in pochi conoscevano: “Addio amore”

Talento smisurato e poliedrico, Monica Vitti ha rappresentato un modello attoriale probabilmente irripetibile. E non solo al cinema.

 

Quando le esperienze di vita fanno emergere il più cristallino dei talenti. Uno di quelli difficilmente ripetibili, per spontaneità e umiltà al servizio dell’arte.

Monica Vitti
Foto © GettyImages

Monica Vitti è stato tutto questo. Dai teatrini domestici per alleviare ai fratelli gli echi fin troppo vicini della Seconda Guerra mondiale, ai primi approcci teatrali, fra Shakespeare e Moliére. Quando ancora il suo nome era Maria Luisa e la sua passione recitativa passava tutt’altro che inosservata sotto gli occhi di Silvio D’Amico e Sergio Tofano. Fino al cinema, che interpretò sul filo che divide la commedia dal dramma, scendendo nell’uno e l’altro lato con l’abilità dei più grandi. In quel momento era già Monica Vitti, nome nato per la sua arte trasformista, tutta fregoliana, e come omaggio a sua madre Adele. Di cognome Vittiglia.

Voce caratteristica, prestata anche al doppiaggio. Doppia la sua omonima Maria Luisa “Dorian Gray” Mangini, nel capolavoro Il grido, di Michelangelo Antonioni. E’ lui che la nota, la sceglie e la rende sua musa. Quattro film in quattro anni, da L’avventura (1960) a Deserto rosso (1964), passando per La notte e L’eclisse. Un primo titolo che è quasi una profezia: il suo debutto arrivò qualche anno prima fu quel film a segnare l’inizio di un sodalizio non solo artistico ma anche sentimentale. Il cinema italiano trionfa a Cannes, Antonioni e Fellini fanno incetta di premi. E Monica Vitti si rivela fuoriclasse del dramma agli albori del cinema della commedia all’italiana.

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Monica Vitti, talento irripetibile: dal successo al ritiro

Fra gli anni Sessanta e Settanta Monica Vitti affianca i più grandi registi italiani dell’epoca. Mario Monicelli la chiama e le cuce addosso il ruolo di Assunta Patanè ne La ragazza con la pistola, affacciandosi nel genere commedia. E’ il 1968 e la sua interpretazione è la fotografia dell’emancipazione femminile, dal disonore subito in Sicilia alla rinascita sociale nel Regno Unito, nella comprensione piena della propria dignità di donna. Inizia una nuova vita professionale: i suoi ruoli esplorano il costume italiano degli anni di transizione, a cavallo fra l’impegno sociale sessantottino e gli Anni di piombo. Le commedie attraversano un’epoca di cambiamento, dal Dopoguerra all’avvento della contemporaneità, fatta di leggerezza ma anche di riflessione sui contesti mutevoli.

Alberto Sordi la dirige in Amore mio aiutami, nel ’69, fra sogni impossibili e delusioni inevitabili. Recita con Mastroianni e Giannini sotto la camera di Ettore Scola, nel ruolo della fioraia Adelaide in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca). Torna con Sordi nel cult Polvere di stelle e la chiama Magni per la sua Tosca, con Gigi Proietti e Vittorio Gassman. E nell’80 è di nuovo con Antonioni, per il suo Il mistero di Oberwald, primo film a finire su pellicola dopo la registrazione in video. Tre anni dopo convince il direttore della fotografia, Roberto Russo, a mettersi dietro la macchina da presa. Il suo Flirt (1983) vale un David di Donatello al neo-regista e un Orso d’Argento alla stessa Monica Vitti. Inizio di un sodalizio che diventerà affetto per la vita. I due convoleranno a nozze nel 2000, in Campidoglio, con l’attrice già lontana dalle scene.

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Non appariva più da vent’anni. Riservata nella sua vita privata come lo era stata sul set. Con l’affetto di suo marito per tutti gli ultimi discreti anni. Qualche sporadica fotografia in giro per Roma o lungo il litorale di Sabaudia. Scampoli di vita quotidiana di un personaggio che ha segnato non solo il cinema italiano ma il tessuto culturale di un Paese in pieno cambiamento. Scandendo il passaggio con il tono inconfondibile della sua voce, umile e decisa al tempo stesso.

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