Licenziamenti e contratti a termine: bocciati due emendamenti cardine

Sembrava ci fossero buone possibilità affinché passasse, e invece la stretta sui licenziamenti non è riuscita ad andare in porto. Su spinta del governo, il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, ha deciso di ritirare l’emendamento che faceva salire da 4 a 8 le mensilità minime che i datori di lavoro avrebbero dovuto pagare ai loro dipendenti in caso di licenziamento senza giusta causa.

“Il governo – ha detto Damiano – sta commettendo un errore che non va sottovalutato. La prossima legislatura dovrà per forza di cose affrontare questo problema, poiché in Italia licenziare costa davvero troppo poco ed è diventato estremamente facile”. Facilità che a detta di molte parti politiche, anche interne a quelle di maggioranza, è stata ulteriormente allentata con l’arrivo del Jobs Act.

E la cosa per certi versi scoraggiante è che non è solo la stretta sui licenziamenti a non avere avuto la meglio, poiché anche l’emendamento sui contratti a termine non ha ottenuto il via libera. L’emendamento in questione, che portava la firma di Chiara Ribaudo (Pd), mirava molto semplicemente a ridurre da 36 a 24 mesi la durata massima dei contratti a tempo determinato. Su questa proposta c’era ampia convergenza, ma visto il dietrofront pare che l’accordo politico non fosse così forte.

Nel frattempo, mentre il fronte lavoro accusa non uno ma ben due colpi nel giro di poche ore, all’esame del Parlamento arriva un pacchetto di 11 emendamenti a firma Francesco Boccia (parlamentare sempre in quota Pd e relatore della manovra).

Tali emendamenti riguardano fronti piuttosto trasversali: si va dalla conferma del canone Rai a 90 euro fino all’introduzione della legge sugli educatori socio-pedagogici e pedagogisti; si parla poi di nuove regole per la tracciabilità dei farmaci e della famigerata web tax, destinata a scendere dal 6% al 3% e a non riguardare più l’e-commerce. Inoltre, una norma riguarda le mamme che potranno usare gravidanza e maternità come “legittimo impedimento” a comparire nei procedimenti.

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